La storia dell’olivicoltura si lega strettamente alla storia dei territori coinvolti nelle riforme papaline, tanto da caratterizzarne l’aspetto e la loro storia economica e politica, ma allo stesso tempo é legata anche alla vita delle Abbazie Cistercensi e delle comunità monastiche presenti sui territori di riferimento.


Sono proprio queste che danno impulso all’agricoltura a partire dall’anno Mille, bonificando i terreni dalle acque e mettendo a dimora nuove piante di vite e ulivo. Tutto ciò ha permesso all’Ulivo di sopravvivere al Medioevo e di arrivare alla sua riscoperta a partire dal 1700 con la grande azione riformatrice dello Stato Pontificio.

Con la decadenza dell’Impero romano d’Occidente l’agricoltura subì un grosso tracollo, la perfetta organizzazione distributiva romana-con i suoi “collegi” degli importatori e la sua “arca olearia”, cioè la borsa dove si trattavano le partite di olio provenienti da paesi esteri, che fino ad allora aveva soddisfatto le richieste del mercato, viene inesorabilmente soppiantata da una produzione e commercializzazione esclusivamente finalizzate all’autoconsumo locale.


 

Solo verso il V-VI secolo si ebbero segnali di ripresa e se l’ulivo riesce a sopravvivere al Medioevo e ad arrivare fino a noi, lo si deve all’opera degli ordini religiosi Benedettini e Cistercensi. Sono proprio queste comunità monastiche a dare impulso all’agricoltura a partire dall’anno Mille, bonificano i terreni dalle acque e mettono a dimora nuove piante di vite e ulivo.
Il successo dell’economia agraria dei Cistercensi e la sua superiorità nei confronti delle grandi proprietà terriere, ormai sorpassate e decadenti, trova spiegazione soprattutto nell’organizzazione e nella pianificazione dello sfruttamento delle proprietà dell’Ordine.

Sono proprio queste comunità monastiche a dare impulso all’agricoltura a partire dall’anno Mille, bonificano i terreni dalle acque e mettono a dimora nuove piante di vite e ulivo. Il successo dell’economia agraria dei Cistercensi e la sua superiorità nei confronti delle grandi proprietà terriere, ormai sorpassate e decadenti, trova spiegazione soprattutto nell’organizzazione e nella pianificazione dello sfruttamento delle proprietà dell’Ordine.



Lo sfruttamento di tutti i possedimenti terrieri restava sotto il controllo dell’abate ed ogni nuova acquisizione veniva lavorata con una cura speciale, per l’utilizzo migliore delle sue possibilità. Lo strumento di maggior successo per raggiungere tale scopo fu l’organizzazione di grange, una specie di stanziamenti monastici agrari, i quali univano i vantaggi della pianificazione centrale con l’autonomia locale.

I monasteri del Lazio ancora conservano traccia dei loro antichi oliveti, è un chiaro esempio l’Abbazia di Casamari, che con i suoi possedimenti ricadeva in una zona ad alta vocazione olivicola. Il metodo medievale di produzione dell’olio consisteva nelle seguenti operazioni:

  • Molitura delle olive;
  • Pressatura della massa;
  • Separazione del prodotto oleoso dall’acqua.
 

Con la pressatura attuata mediante torchio a vite, il liquido ottenuto veniva convogliato in una apposita cisterna, indi era travasato nell’impianto di decantazione ove, essendo l’acqua più pesante, poteva prelevarsi l’olio emerso in superficie utilizzando paterae o piatti.
Durante la lavorazione un indispensabile focolare manteneva la giusta temperatura negli ambienti. In questo contesto va rammentata per l’olio l’intensa funzione cristiana, con la costante accensione di lampade votive davanti alle reliquie dei santi.

La distinzione fra le tecnologie agricole di macinazione,
rispettivamente per cereali e olive, è messa ben in evidenza nelle fonti:
«in Soramansiones triginta quinque il loco qui dicitur Cancelli,
unum molendinum, et unum Montanum»
.


Ma per assistere all'imporsi della coltivazione specializzata nei territori di più sicura vocazione olivicola, come Tivoli, la Sabina e l'alto Lazio, la Ciociaria e le colline Pontine dobbiamo attendere il Quattrocento e gli ulteriori sviluppi cinquecenteschi.

Sebbene, fin sulle soglie del XIV secolo, l’esiguità delle testimonianze ponga seri limiti alla ricerca, è possibile intravedere per il Mezzogiorno svevo e angioino l’esistenza di una trama interna di flussi commerciali che, per via di terra o, più spesso, di mare, provvedevano a rifornire i mercati dei maggiori centri cittadini (Palermo e Napoli in testa a tutti) ed ogni altra comunità che non potesse contare su una produzione adeguata , e dalle fonti riscontriamo che gli oli provenienti da Gaeta e da Napoli potevano trovarsi a Costantinopoli, a Cipro e sulle coste mediterranee dell’Africa.

Ad eccezione di Gaeta però la produzione di olio nel Lazio anteriormente al XVI secolo non fu tale da alimentare esportazioni significative sulla lunga distanza. Nella seconda metà del secolo il mercato romano drenava così la pur cospicua produzione della Sabina, del Viterbese e delle terre di Campagna, ricorrendo, quando la produzione laziale si rivelasse insufficiente, ad importazioni dal Mezzogiorno e da Genova.